venticinque gennaio sedici venti

il 25 gennaio 2016 è quella data che per me c’è un prima e c’è un dopo.

anche il prima era un casino, come tutti come tanti

però era un casino con un tetto dei contorni. vivevamo una vita come tutte, e come tante ci sentivamo – mi sentivo – protetta da un guscio: guardavo il mondo e sapevo che c’erano cose che toccavano solo agli altri, che a noi non sarebbe mai toccato affrontare.
questa certezza riguardava soprattutto le malattie, e la sicurezza che non ci potessero sfiorare era inversamente proporzionale all’età delle persone che erano la vita mia: più sei piccolo, più grande è la sicurezza che niente di brutto possa toccarti.

nel più piccolo cerchio di amore, nel più piccolo centro di senso, c’erano i miei due figli.
vivevamo in campagna, molta campagna, stavamo nel chianti, in una vita piccola e piuttosto faticosa. ma respiravamo cieli molto grandi e campi -marroni verdi poi gialli poi marroni- e cipressi -fino a detestarne la precisione e l’arroganza- e i caprioli e il tasso e la mamma cinghiala coi piccoli.

jaume e miquel avevano 10 anni il 25 gennaio 2016.

jaume da qualche mese -almeno dall’estate- era strano. di una stranezza che non riuscivo a dire con le parole, a volte gli occhi guardavano lontano, si fermava, mi diceva che era stanco, che non vedeva più. aveva iniziato a mangiare tantissimo, sempre. un giorno mi disse “mamma ho fame” e in quel momento mi sono resa conto che mai prima aveva pronunciato quella frase in vita sua. magro da sempre, disinteressato al cibo. ma poi era famelico. mangiava piattate di pasta e carne e tutto quello che trovava e pandistelle a chili.

starà crescendo – mi dicevo

si ma dimagrisce tanto – mi dicevo

un altro giorno era pomeriggio e c’erano due suoi amici a casa a giocare. mi ha detto “ho sonno” e gli si chiudevano gli occhi e la testa ciondolava.
ma come hai sonno jaume? ma non dormi al pomeriggio da quando hai 4 anni, jaume.
mi metto qui – mi ha detto – e si è messo sulle mie gambe con la testa sulla mia spalla e la bocca nel mio collo e l’odore di mela, l’odore di acetone.

mangia e dimagrisce e a volte i suoi occhi si perdono. ha sonno ha l’acetone.
come si dice a parole questa cosa? come la spiego? chi è che mi può capire?

nessuno sembrava accorgersene, non avevo sponde, forse ti sbagli nene. sei paranoica, sei agitata, sei stanca? hai paura di non saper essere brava, di non essere una brava mamma? sei apprensiva? butti su di loro delle cose che sono tue?

poi ha iniziato a bere, a bere litri e litri di acqua al giorno. si svegliava di notte e svuotava bottiglie intere. trovavo bottiglie vuote – la prima traccia che mi dava ragione: la sete, le bottiglie vuote. questo lo potevo dire, era sotto gli occhi di tutti: forse non ero pazza.

una notte ha fatto la pipì fra il letto e il bagno.
non sono riuscito ad arrivare in bagno mamma, ho fatto la pipì per terra mamma, cosa succede mamma?

poi era lunedì ed era il 25 gennaio e io avevo scoperto che jaume aveva il diabete di tipo 1.

c’è google, scrivi “tanta fame tanta pipì tanta sete perdita di peso acetone”. è facile.
la mattina ho fatto una foto, era in piedi sul mio letto e dietro l’ombra.

andavo verso il lavoro, era la siena-firenze, piangevo. piangevo come io non ho pianto mai
mi sono fermata in una piazzola
sapevo che jaume aveva una malattia che ci avrebbe cambiato la vita, ma ero in un limbo
lo sapevo solo io, non lo sapeva jaume, non lo sapeva il mondo e nessun medico aveva sigillato la mia certezza. ero in un tempo di sospensione e l’avrei fatto durare per sempre, se avessi potuto. c’era una parte di me che non voleva trovarsi davanti a una diagnosi, lo sapevo solo io e quindi era vero a metà, mancava la certificazione.

quel pomeriggio sono andata a casa, ho aspettato. poi ho preparato una valigia per l’ospedale e ho portato jaume dal pediatra, in ambulatorio. l’avevo già chiamato dicendogli “oggi ci deve ricevere anche se è pieno perché jaume ha il diabete 1” e lui mi aveva detto “io in 30 anni di professione di bambino col diabete di tipo 1 ne ho visto solo uno”
oggi vede il secondo, pensavo.

nell’ambulatorio c’erano due specializzande. due ragazze bellissime.
ho toccato la spalla di jaume per invitarlo ad entrare e la scapola era un’ala. ormai enorme, sporgente, in quel corpicino magrissimo.
entra jaume, stai tranquillo. è tutto veloce e non ti fanno niente.

la diagnosi di diabete mellito di tipo 1 è banalissima. uno stick nelle urine che nel giro di pochi secondi rileva la presenza di glucosio. se nelle urine c’è del glucosio sei diabetico. basta. un secondo, una parola, e sei malato.

io ero quasi serena lì. io lo sapevo già, ero sola, ero con jaume, dovevo provare a non andare completamente in merda.
ma mi ricordo le specializzande con questo bicchiere di plastica con la pipì di jaume che sbiancavano. dottore, dicevano, dottore venga. e sussurravano, si nascondevano, mi guardavano, guardavano jaume. non volevano essere loro a dircelo.

come si dice ad un bambino che è malato, che sarà malato sempre, perché ha una malattia che non guarisce?
come lo guardi quel bambino? e la sua famiglia?
quali sono le parole giuste? quelle che fanno meno male? e lo sguardo? gli occhi come li appoggi su quel bimbo?

è stato un attimo fermo e poi il panico. chiamare il pronto soccorso. andate signora vi stanno aspettando.
gli auscultavano il cuore e i polmoni: si signora corra lei al pronto soccorso, ce la fa. erano nervosissimi. c’era il panico. jaume era in una bolla, lontano. siamo saliti in macchina, era buio, io avevo già la valigia.

amore, andiamo all’ospedale e ci ricoverano. staremo sicuramente qualche giorno. hai una malattia che non guarisce ma si cura. ti farai l’insulina. non lo so bene come funziona amore ma scopriamo tutto. non ti mollo mai. non ti mollo mai. non ti mollo mai.

al pronto soccorso mi ricordo che continuavano a bucarlo, non trovavano le vene perché era disidratato. gli hanno fatto un prelievo dall’inguine e lui era immobile. nessun glucometro riusciva a rivelare la glicemia perché era troppo alta. immediatamente i referti degli esami: glicemia oltre gli 800 mg/dl. per me quel valore era un numero senza significato. ero ancora in una vita in cui non sapevo che da quel momento avremmo dovuto fare di tutto per mantenere la glicemia fra gli 80 e i 180 mg/dl.

poi è arrivata lei, anziana, riccia, bianca, un camice e tre parole: “grave, incurabile, degenerativo”.
nel box di un pronto soccorso in toscana, una diagnosi e tre aggettivi.

l’hanno attaccato all’insulina. ha dormito 12 ore

poi si è svegliato e mi ha detto mamma ce la facciamo mamma sto bene mamma mi basta l’insulina e sto bene

ce la facciamo mamma

e io facevo schifo, io che piangevo, io che non riuscivo a tenere per me il male e lo inondavo
io che non ero abbastanza grande, abbastanza forte, abbastanza mamma, abbastanza salda

ce la facciamo mamma

lui che mi insegnava la vita, quando il guscio si spacca, quando diventi minuscolo davanti alle cose che sono orrende e ti toccano – per la prima volta toccano a te ma non a te, a uno dei piccoli- che è crudeltà.

il diabete 1 è una malattia autoimmune: non si sa perché venga, non si sa a chi venga ma praticamente il tuo corpo decide di ammazzare le cellule che nel pancreas producono insulina. l’insulina è quell’ormone che riesce ad assimilare gli zuccheri presenti nel sangue e a trasformarli in energia. senza insulina il sangue si riempie di zuccheri e questo stato, detto iperglicemia, porta nel tempo a conseguenze gravissime (robe tipo cecità, neuropatie, nefropatie). bisogna quindi iniettarsela, l’insulina. ma se ne inietti troppa (e basta una goccia) provochi un’ipoglicemia -l’assenza di zucchero nel sangue – e lì le conseguenze sono più immediate: se non la risolvi subito integrando zuccheri nel corpo vai in coma.

non c’è guarigione, ma c’è cura: e la cura è la lotta per il mantenimento di uno stato di omeostasi glicemica. imparare a trasformare il tuo cervello nel pancreas e insegnargli a capire tutto del corpo per evitare ipo e iper. sembra così facile, e invece è un mezzo inferno. bucarti tante volte al giorno e sempre prima dei pasti per controllare la glicemia, bucarsi per farsi l’insulina ogni volta che si mette in bocca un alimento, mettersi le sveglie di notte per farsi le glice, non potere sbagliare mai eppure sbagliare spesso, cercare di rincorrere il corpo che cresce e i fabbisogni insulinici che cambiano, rinunciare a mangiare alcune cose quando non è conveniente,
e avere paura

i primi giorni di ricovero jaume era attaccato ad una flebo di insulina. poi ha iniziato ad iniettarsela da solo. allora siamo riusciti ad uscire, siamo andati al sole, nel cortile dell’ospedale, lo guardavo e avevo paura.
paura che si rompesse, paura di non essere abbastanza forte, lo guardavo e pensavo che la sua forza il suo coraggio la sua luce mi stava insegnando la vita tutta.

e il primo weekend dopo l’esordio abbiamo preso la macchina e siamo andati al mare e ho pensato che era la prima volta che vedevo il mare da quanto ero emozionata e felice di saperci tutti interi.

e siamo andati al giardino dei tarocchi e eravamo tutti rotti e tutti insieme.

ciao oggi sono 4 anni che viviamo questa vita che ancora tutti i giorni è nuova e ancora tutti i giorni è un casino e ancora tutti i giorni è diversa e parallela rispetto a quella di tutti gli altri.

insieme e vicino c’è sempre stato micu, che è stato il primo che ho guardato forte negli occhi dopo l’esordio di jaume, il primo con cui ho cercato un’alleanza. come quando scoppia una bomba
ho guardato miquel per capire se era intero: 5 dita 2 piedi 2 mani 2 occhi 1 naso 1 bocca. jaume lo sapevo che era intero. poi mi sono toccata io, tutto il corpo, ho contato le parti di me e ho capito che anche io ero intera. che la bomba ci aveva trasformati ma non devastati. che l’unica cosa che dovevamo imparare a gestire – loro sole in scorpione e io luna in cancro – era tutta l’acqua e tutte le emozioni che venivano dalla pancia
che aveva preso paura – tanta.

ciao jaume che insegni

ciao micu che mi hai guardato e che sai e che sotto ci sei

ciao diabete 1, sono 4 anni e siamo interi e vacillanti e però qui.

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