silenzio intorno spazio dentro

ieri erano 4 settimane dal giorno in cui ho iniziato a lavorare a casa, il mio ufficio ha chiuso ed è iniziata questa vita.

il 4 marzo ho preso j e m e siamo andati noi tre a mangiare la pizza fuori nella nostra pizzeria preferita, quella scrausa e buonissima, con le foto dei viaggi che il pizzaiolo ha fatto in giro per il mondo. che mangi e vedi lui seduto davanti a una tenda nel deserto, o lui attrezzato che sale boh, sul machu pichu sul kilimangiaro sull’everest, le facce africane, le facce andine, le facce inuit, le jeep da deserto il mare i laghi gli animali la zebra l’orso polare
e la testa comunque va lontano

all’inizio era una cosa dolce buffa mitologica
e questo è assurdo, no?
ma io non avevo alcuna consapevolezza di cosa stessimo vivendo

avere a che fare con un mostro invisibile e sottile, col dono dell’ubiquità e dell’invisibilità.
qualcosa che ti rimane addosso e potenzialmente può ucciderti
un pulviscolo dai mille supereroi, che ha incrinato un mondo un sistema un’idea di come le cose siano o vadano fatte.

CHIUDETEVI IN CASA
ZONA ROSSA

e la curiosità per questa vita e la sensazione di essere in un film
la convinzione che la casa fosse un nido, che ci avrebbe protetti.
noi separati da voi, noi separati da tutto.
noi 4 qui, fra queste pareti uterine, coi nostri corpi che sono uno, con i nostri germi batteri virus salive starnuti -che sono mescolati
noi da qui, dal terzo piano di sarpi, noi uguali a tutti, uguali ma divisi, su questa barca sterminata con tutti i corpi del mondo, nella stessa tempesta

all’inizio c’era il bisogno di condividere quello che succedeva. parlarne per provare a dare forma, no? provare a capire, ascoltarsi, ma tanto dicevamo tutti le stesse cose
mille videochiamate diecimila gruppi whazzapp.
la rassegna stampa di mio padre, non pensare alla paura, dividersi fra chi “ma dai” e chi “moriremo tutti”, fra i complotti, chi ha creato il virus?, il battito di farfalle lì che abbatte una foresta là, il pipistrello a wuhan e la nonna che muore a alzano lombardo.

[“wuhan” era una parola che non avevo sentito mai, una regione di cui disconoscevo l’esistenza. come la parola “marò”, che ho imparato dalle notizie e non avevo mai usato prima e non userò mai se non in riferimento a QUEI DUE MARO’]

all’inizio andavo da mia madre tutti i giorni con la schiscia,
la sensazione di essere utile per qualcuno, non è così banale, i miei figli sono grandi, a volte penso MA A CHI SONO UTILE IO? ma in tempi di pandemia pensavo che alla mamma poteva servire avere la schiscia fatta, salvo poi scoprire che al supermercato ci va lo stesso
il prendersi cura, camminare fino a casa sua. farla uscire di casa, parlare in cortile, non toccarci. tutto l’amore era nel non contatto, nella distanza, nell’asetticità.

lavorare da casa, lavorare tanto, coi ragazzi vicini, tutti sul tavolo da pranzo, ognuno il suo computer e la sua lezione e alzare gli occhi dalla tastiera e vedere le loro teste piene di cose, incazzarmi perchè non si scrive con la penna sui libri CAZZO, e imparate ad approfondire, ma l’ottativo, ma state concentrati, ma che bello respirarci così, e che regalo strano questo tempo sospeso

E CHE REGALO STRANO E PREZIOSO QUESTO TEMPO SOSPESO.

il mio fidanzato è rianimatore. hanno iniziato ad arrivare i corona nel suo ospedale, lui sconvolto “ho visto cose”, non ne parlava, non parla quasi mai, parla poco,
ma quel dolore e la paura
chi ci protegge? chi protegge i medici? sono state prese le decisioni giuste da chi, lassù, adesso parla di EROI IN CORSIA? di PRIMA LINEA? di TRINCEA?
i medici muoiono, i pazienti muoiono, i medici parlano al telefono a famiglie lontane “no signora, non è migliorato, no signora, non ci sono segnali” e poi guardarlo e pensare MA COME CAZZO FAI A ESSERE IL FILO FRA UNA PERSONA CHE MUORE COSI’ DA SOLA E UNA FAMIGLIA LONTANA CHE ASPETTA CHE SPERA CHE.

poi i ragazzi hanno iniziato a chiudersi in camera e studiare e fare lezioni lì, da soli.

all’inizio pensavo che mi mancava il lavoro, camminare, prendere la metro. che mi mancavano i colleghi, mi mancava il cappuccio al bar e le brioche buone. che mi mancava l’esselunga. pensavo anche questo tempo, posso leggere, posso scrivere, posso capire cosa voglio fare e come voglio farlo. posso guardare il mio fidanzato fondo negli occhi, che non succede spesso, no? ascoltarci. avere silenzio intorno e spazio dentro.

poi c’è stato un fine settimana di lacrime e non mi mancava più nulla e mi ero anche resa conto che non riuscivo a fare le cose che amo che mi fanno bene che mi danno ossigeno e bello

sentivo che dentro qualcosa si stava indurendo, un’energia che era espansa e che poi ha iniziato a restringersi ed addensarsi e a costruire una patina protettiva. è diventato un uovo ed è lì all’altezza del petto e a volte impedisce all’aria di entrare nei polmoni

ora penso
speriamo che non ci ributtino subito in quella mischia.

penso alla vita che facevamo con paura.
penso all’aria orribile penso al traffico penso al non senso dei lavori che in tanti facciamo
alle otto ore col culo su una sedia, tutta quella vita per una manciata di scellini

alla lotta per cercare la bellezza,

penso che ho una paura appiccicata addosso

penso a se impareremo qualcosa da questo e a cosa impareremo

oltre le parole oltre a tutto

e mi viene in mente quella scritta sul muro dietro il naviglio grande
che poi l’hanno coperta e ora non c’è più
che ci passavo sempre e un giorno ho detto FATTI UNA FOTO QUI CHE MAGARI TI RIMANE DENTRO IN MOMENTI IN CUI VUOI RIDERE E METTERE INSIEME I PEZZETTI

L’ARDITA PER LA VITA
A R D I T A
e sono arrivate anche le fragole.

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