ciao e sii bella.

bianca garufi e cesare pavese si sono scritti lettere per anni. da lontano, un pò in sicilia a roma a genova a milano a torino, in giro. ma sempre legati da un filo di rispetto di stima -grande enorme stima- di gioco di affetto di famiglia.
si sono scritti fra il 1945 e il 1950 – l’anno in cui pavese è morto. ho scritto “è morto”, ma insomma, si è deciso di morire.

bianca garufi e cesare pavese

è stato con pavese che anni fa ho scoperto che la cosa che mi piaceva di più non è la letteratura ma sono i rimasugli e gli avanzi, i bigliettini, le lettere, i diari, i carteggi, gli stralci di parole consegnati a qualcuno di così tanto vicino da poterci permettere di essere noi veramente noi – oppure scritti proprio solo per noi stessi. abbandonati e lasciati scivolare senza ossessioni e maschere e limature e sovrastrutture e editor e intrusioni.
e poi le poesie, perchè hanno a che fare con un intimo che è vero e fondo – non le riesco a vivere come vivo l’artificiosità della letteratura, ma vibrano e parlano e mugugnano e risuonano e si depositano in un lontano che mi sembra sempre più boh. più bello.

va bene?

il mestiere di vivere è stato uno degli inciampi più felici della mia vita.
vivere come mestiere, come tentativo quotidiano di conciliazione del sè con il dovere, ricerca di quello che siamo veramente e insieme sopportazione di una scatola che ci raccolga. come umile costruzione faticosa di un puzzle, come tensione del venire a patti.

bianca e cesare si incontrano nel 1945 nella sede romana dell’einaudi, dove lei faceva la segretaria. in estate bianca è in sicilia, nella casa della sua famiglia, e inizia a scrivere a cesare.

“…qui è davvero terribile ogni cosa, e irriducibile. c’è una bellezza speciale e, per me, l’unica penetrante.
vivo in un modo strano che avevo quasi dimenticato, qui si dice “vivere di piatto” e sarebbe a dire evitando gli urti o meglio lasciandosi urtare senza conseguenze. è molto difficile da spiegarsi, forse dopo tre bicchieri sarei più esplicita. c’è un vino, decine di vini formidabili. ma io non bevo; bere qui sarebbe fuori posto, quasi un’incongruenza. s’incontrano spesso uomini con la giacca scura buttata sulle spalle e ho spesso associato a questi la tua immagine.
vorrei sapere qualcosa di te, se stai bene, se sei ancora così crudele.
[lettera del 30 agosto 1945 | bianca garufi a cesare pavese]

e pavese tre giorni dopo risponde:

cara bianca,

hai un modo di dire le cose che fa venire in mente i graffiti preistorici: qualcosa di tranquillamente familiare e insieme mitologico. sogni la febbre, vivi di piatto, sai il vino formidabile ma non lo bevi, vedi giacche nere a spalla – tutto questo ha qualcosa di rituale, di rusticamente rituale e molto esotico. (…)
crudele lo sono ancora certamente, se crudeltà si può chiamare il normale contegno di chi rispetta le donne al punto di non volerne sapere di loro. (…)

bianca, come va il tuo caos vitale? non riordinarlo troppo, perché allora ti sparirà anche l’interesse alla vita. tienilo giudiziosamente a mezz’acqua. e se stai troppo bene a letojanni, scappa. non mangiare il loto.

[lettera del 3 settembre 1945 | cesare pavese a bianca garufi]

l’estate finisce, bianca torna a roma, lavorano insieme e nonostante siano nello stesso ufficio continuano a scriversi, e tanto. che cosa sono le parole scritte? come dicono altro rispetto a quelle dette, parlate? come si parla ad una persona quando non è vicina, prossima, toccabile?
iniziano a scrivere un libro a 4 mani (fuoco grande, incompiuto e pubblicato nel ’59): a lui toccavano i capitoli dispari, lei scriveva quelli pari.

che rapporto hanno?
l’ontologia del “noi due”.

e questo di sentire che tu mi aspettavi mi ha fatto pensare all’esistenza nostra, di noi due voglio dire. ho incominciato a prendere coscienza che noi due, per me, era qualcosa che esisteva.
[bianca garufi a cesare pavese | 21 ottobre 1945]

pavese le risponde.

C. B.
tu sei veramente una fiamma che scalda ma bisogna proteggere dal vento. a volte non so se un mio gesto tende a scaldarmi o a proteggerti. anzi allora m’immagino di fare le due cose insieme e questa è tutta la mia e la tua tenerezza come una cosa sola. (…)
non credere alle soluzioni, alle decisioni, alle grandi crisi; credi ai giorni, alle ore, ai minuti. tanto, per grave che sia una crisi, una decisione, ti tocca pure vivere le ore, i giorni e i minuti, e questi li vivi naturalmente (…)
[cesare pavese a bianca garufi | 21 ottobre 1945]

e continua. di tenerezza e di abbandono.

poi succede qualcosa, alla fine di novembre. uno scambio, un confronto.
oltre al sesso, dopo “l’idillio” si arriva alla radice, e nasce il loro “amore storto”. l’unione che c’è quando si arriva nel fondo del marcio, nell’incontro con l’altro intero.

è sempre stato un amore storto, non assenza di amore.
scherzando qualche volta ho detto che sono cattolico – ebbene, questo è cattolico (o cristiano, se vuoi). credere alle anime altrui e rispettarle. sono stato violatore, omicida, sfruttatore, insidiatore di anime altrui, ma ho sempre saputo che facevo male. mi propongo di non farlo più.
[cesare pavese a bianca garufi | 25 novembre 1945]

perdono la speranza di potersi acquietare insieme, di “fare la coppia”, di giocare a quel gioco che è di (quasi) tutti: io e te insieme, il mondo fuori, io moglie tu marito, la casa i figli il matrimonio le vacanze insieme e i pacchettini a natale – il conformismo la noia e morirci, di noia.
rimane l’amore, rimane la stima, rimane la creazione, il confronto, i libri, le passioni in comune, il dialogo. rimane la purezza del riconoscersi soggetti intelligenti, creativi, pensanti.
rimane il gioco, rimane “fuoco grande”, rimangono le lettere

cara bianca, (…)
non abbiamo stretto il patto dell’assoluta libertà reciproca? bruciata la carnale convivenza, con tutto quello che importava di doppia catena, non resta che questo tenerci a rispetto, questo servirci l’uno dell’altro senza infingimenti nè doveri assoluti. se nella dedizione assoluta si apre una crepa, sia pure volgare, sia pure fisiologica, tutta la confidenza diventa problematica e non può sostenersi che a prezzo di un equilibrio sottile, concorde e discorde, tollerabile soltanto se spontaneo ogni volta. la dedizione assoluta è un’altra cosa – è il partito preso feroce di essere uno con l’altro, dove non esiste più un problema di vita individuale e si diventa centauri – ma la dedizione assoluta, pare, non esiste. conservarne i vantaggi rifiutandone gli oneri, non è onesto. pazienza, o meglio, pace.
[cesare pavese a bianca garufi | 26 febbraio 1946]

il sesso che crea una doppia catena, una schiavitù che inquina e sporca, il vampirismo del centauro, la fusione, la malattia. la coppia come una bocca che divora, la ferocia.

che cosa pretendi? che ci coccoliamo come due conigli? io trovo molto bello questo maltrattarci insaziabile; è sincero dopotutto e producente. ciascuno ha i suoi sistemi – noi siamo una bellissima coppia discorde e il sesso – che dopo tutto esiste – si sfoga come può.
[cesare pavese a bianca garufi | 17 aprile 1946]

si rimproverano, nel gioco, sotto una polverina di famiglia, in un rapporto che diventa intimo e intenso
lui la chiama “una pietra che rotola” – a rolling stone gathers no moss
la accusa di non essere abbastanza capace di portare a termine quello che inizia, rotola in mille prati e non ne sceglie uno -scrive racconti, traduce dal francese, scrive poesie, scrive abbozzi per il teatro, prova a tradurre dall’inglese.
lei lo rimprovera di essere crudele, oppure lo invita ad essere “più buono che non ci perdi niente e non ci rimetti niente”: ma non subisce mai, mai niente.
l’ultima lettera

cara bianca, (…)
io sono sempre testardo e lupo, e sfrondo sempre di più la mia pianta-uomo per non lasciarci che un solo pollone, il tronco, il quale produca direttamente i frutti. insomma, tento di abolire foglie e fiori, e fin che dura va bene. ma, come dice balbo, sono un sottile alberetto da cui pende una pera enorme e altro niente. (…)
e tu, sei sempre dell’idea di tutto tentare e a niente fermarti? io su questo fatto sono irriducibile e anzi sto teorizzando la monotonia, l’insistenza su un solo esperimento, come la condizione di ogni validità. (…)
[cesare pavese a bianca garufi | 3 febbraio 1950]

io so che ho visto questo libro e lo ho letto da dicembre ad oggi per tre volte. per far depositare le tracce di quell’incontro e imparare nelle loro parole. in quelle più pulite, più dirette, in quelle della penna della mano delle sbavature sulla carta.

è stato un libro prezioso, bello, bellissimo
bellissimo come le cose discordi, che non coincidono, che vivono nello iato, nella tensione, nell’onestà.

una bellissima coppia discorde
il carteggio tra cesare pavese e bianca garufi
leo olschki editore

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